Giorno 104 dall’inizio della chemioterapia
Fiamme in bocca e cranio rovente.
La settimana prossima, il giorno dopo un altro ciclo di taxolo, parto per qualche giorno da sola.
Non è un vero e proprio viaggio, perché mi muoverò poco o nulla, non volerò da una città all’altra, non vedrò posti nuovi.
Per alcuni aspetti, non è nemmeno una vacanza estiva: non ci saranno bagni al mare, né escursioni in montagna, né tende in campeggio, né passeggiate fra i vicoli di un borgo.
Men che mai potrebbe essere una partenza per una maratona di tango: mancano adesso il fiato, i muscoli, la postura e la delirante frenesia necessari a reggere ore di ballo per i tre giorni canonici di una maratona di tango.
Mi piace invece pensarlo come un buen retiro, nell’accezione attuale.
Il buen retiro era, una volta, il nome di una residenza reale dalle parti di Madrid, dove nel 1759 Carlo di Borbone trasferì la fabbrica di porcellane di Capodimonte. Poi, compiendo non so quale tragitto, l’espressione passò a indicare un rifugio segreto per amanti. Così in D’Annunzio:
«Ho tante cose da raccontarvi, Elena. Venite da me, domani? Nulla è mutato nel buen retiro. ― Ella aveva risposto, semplicemente: ― Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa».
D’Annunzio, “Il Piacere”, 1889, libro I
Oggi il buen retiro è un “luogo appartato e tranquillo dove si cerca e si riesce a trovare un temporaneo riposo” [treccani.it].
Mi ritiro a Fontanelle di Roccabianca, dove c’è un posto appartato e tranquillo che mi è caro.
È un vecchio casolare restaurato e diventato un amabile b&b dipinto di giallo. È in aperta campagna, nella Bassa parmense vissuta e raccontata da Giovannino Guareschi, e perciò non poteva che chiamarsi B&B Mondo Piccolo. L’ho scoperto un paio di anni fa grazie alla mia amica Irene, che mi ci ha portato.
L’ultima volta che ci sono stata, a Mondo Piccolo, avevo ancora i capelli. Non ero mai entrata in un reparto di oncologia e, forse, non avevo ancora il cancro (o forse sì, ma non saperlo cambia la vita così come saperlo). Camminavo scalza sull’erba a qualsiasi ora del giorno, la mia pelle non temeva la luce del sole; mettevo ancora lo smalto semipermanente alle unghie delle mani e dei piedi perché non rischiavo di vederle sfaldarsi e cadere; visitavo il caseificio Parma2064 e compravo chili di Parmigiano Reggiano 30 mesi da portare a casa. Mangiavo culatello e gnocco fritto con gioia selvaggia, libera da reflussi gastroesofagei. Irrequieta e malinconica lo ero già, ci sono nata, ma ora lo so: un temperamento saturnino dentro un corpo sano è una dannazione più semplice da sopportare.
Mondo Piccolo è un posto straordinario, creato da due persone singolari, Rossana Capasso e Alessio Concari. Lui sa fare un pane buonissimo e sa anche insegnare a farlo; sa curare la sua terra e coglierne i frutti, preparare la legna, raccontare storie, educare i giovani, ballare il tango, cucinare e accogliere gli amici. Lei sa vedere le cose da prospettive non comuni, sa disegnare e fotografare il mondo, cucire stoffe e creare gioielli, allevare gatti, scegliere libri, ballare il tango e selezionare la musica giusta per migliaia di ballerini e ballerine di ogni Paese. E poi sa ridere bene.
Mondo Piccolo, adesso, è il mio posto delle fragole.
Per la prima volta ci andrò in desiderata solitudine: mi ritiro in campagna a leggere, scrivere, stare nella lentezza del silenzio, fotografare i campi e i tramonti, fiutare l’odore di letame dalle fattorie, giocare con i gatti della Ros, ascoltare i racconti e le imprecazioni parmensi del Concarone.
Starò ferma, a osservare la processione dei miei pensieri fra le balle di fieno.
Coglierò le zucchine dell’orto – la Ros mi avverte che ci sono anche i pomodori, le melanzane e i peperoni, ma cercherò di evitarli come mi prescrive il piano alimentare della nutrizionista oncologica. Raccoglierò le erbe aromatiche, che mi piacciono tutte. Cucinerò i miei pasti a base di cereali, pesce, legumi e verdure nella stalla adibita a cucinone. Almeno una volta, spero, pranzerò o cenerò anche con i padroni di casa, se hanno loro la bontà di cucinare un piatto godereccio, altamente calorico e parmense assai, di quelli che quest’anno potrei permettermi una volta a settimana.
Forse, farò giusto una capatina in città, un pomeriggio, per un museo, due passi fra le strade del centro, una visita alla libreria preferita della Ros, che si chiama Diari di Bordo. Ma poca vita urbana, poco rumore, poche persone, poca velocità di gambe e di tempo, poca euforia di gente in ferie.
È possibile che mi capiterà di pensare ai miei guai di quest’anno (che non si limitano alla malattia). Lacrimerò liberamente, allora, e ozierò nella malinconia se serve, senza persone intorno che mi spronano a restare tenace, sveglia e brillante – colpa mia che le ho abituate a pensieri intelligenti, pratici, robusti.
Porto con me libri da leggere, taccuini da scrivere, viveri per assicurarmi i miei pasti leggeri, pochi vestiti, piccoli regali per i padroni di casa, tutto il mio prodigioso corredo di farmaci e integratori, il desiderio di recuperare la grazia luminosa della ragione, un po’ di fiducia e una piccola scorta di pace che mi duri almeno per questo agosto che sta per iniziare.
Magari, imparo pure a pregare, in qualche mio modo strambo e poco devoto.
Mi piacerebbe cantare “Redemption Song”, seduta sulla terra nella posizione del loto, tra il giallo e il verde dei campi, oppure ballare una danza tribale senza turbante, a testa nuda, sotto un temporale – speriamo che piova almeno per un pomeriggio.
Poiché ho l’imprudenza di partire ventiquattro ore dopo un ciclo di chemio, non è del tutto irragionevole temere di finire a fare un “buen retiro” all’ospedale di Parma, magari per un nuovo effetto collaterale non ancora sperimentato a casa. Ma ho con me i miei libri e le mie carte, che mi salvano sempre, e quella scintilla di insensata speranza che, cazzo, non mi si spegne.