Giorno 101
Seconda serie di chemio, quarto ciclo di taxolo.
Globuli rossi un po’ ingrossati, ma che fa? Un ricamo di vitamina B12 e acido folico da aggiungere al sontuoso corredo di pillole e granulati giornalieri, e via. Iniezioni? Si vedrà. Che sarà mai una manciata di iniezioni a base di integratori dopo 47 giorni di eparina e 4 colpi di pegfilgrastim?
Ieri sera ho festeggiato i primi cento giorni di chemioterapia con un egregio 100% Sauvignon Blanc “Vette” della Tenuta San Leonardo, un Vigneto delle Dolomiti IGT. Era aromatico come piace a me; sapeva di pesca, cedro, tiglio, foglia di pomodoro. Ci ho abbinato un mezzo cartoccio di alici fritte, una calamarata allo scoglio e dei gamberi in tempura, vista mare. Avevo fame di cose buone e belle.
A pranzo avevo trangugiato la mia porzioncina di quinoa con ceci bolliti e sgranocchiato le mie due carote crude, vista soggiorno. Tanto, il prelievo di routine lo avevo fatto al mattino e al pomeriggio non avevo ricevuto telefonate dal reparto: il silenzio significa «Tutto a posto, “no news good news”, ci vediamo alla terapia di domattina, prendi Varcodes 4 mg stasera».
E infatti ho preso Varcodes 4 mg, dopo la cena e il Sauvignon, mandandolo giù con la tisana sgonfiante miscelata dalla mia erborista Maika di Martinbio (finocchio, menta, liquirizia, verbena e tarassaco). Ho sbagliato anche questa settimana, perché il Varcodes è un corticosteroide in compresse effervescenti: va sciolto in acqua e bevuto come una bella aranciata, o come un Sauvignon Blanc.
Non le farine raffinate, non gli zuccheri, non i lieviti quella volta ogni tanto: è il taxolo. È il taxolo tutte le settimane, che mi fa male. Fa male alle cellule sane come alle cattive, e fa male all’umore. Al mio, almeno.
Non ho amuleti con me, oggi.
È la prima volta, dall’inizio della chemioterapia, che non ho voglia di sforzarmi a sceglierli: magliette impertinenti o creative; calzini bizzarri e imbarazzanti; borse e turbanti cuciti a mano da amiche generose; orecchini artigianali e rossetti rossi; libri belli che non riesco a finire di leggere per carenza di lucidità e motivazione; oggetti portafortuna da tenere addosso, fra le mani, davanti agli occhi, sulle gambe.
Ho con me cose ricevute in regalo, sì, ma niente che io oggi abbia voglia di eleggere ad amuleto.
Dopo 100 giorni di chemioterapia, d’altra parte, si inizia a far fatica a rimanere allegri e brillanti. C’è lo sfinimento. È uno sfinimento che dal corpo – ossa, muscoli, fegato, intestino, vene, – si irradia ai sentimenti e ai pensieri. Soprattutto ai pensieri.
Per me, una mente stanca è più allarmante di un corpo stanco. Come ha scritto Blaise Pascal, tutta la nostra dignità sta nel pensiero. È Pascal, credo, ad aver usato la metafora della canna per descrivere l’essere umano come la più fragile creatura di tutta la natura, ma forse a noi italiani sono più familiari le Canne al vento di Grazia Deledda. «Bisogna mettere in conto – mi ha scritto stamattina la mia amica Sara – che di base siamo sempre canne al vento come diceva Graziuccia». Di base, sì, ci si porta via un colpo di vento.
Sono giorni di cupezza più profonda, e spesso di ira facile – proprio ieri la mia amica custode Enrica mi ha portato una ricarica di cocci per la Scatola della Rabbia, che negli ultimi tempi ho provveduto a svuotare contro il muro del garage.
Ho perso lo smalto delle prime volte, scrostato dall’esasperazione, opacizzato dalla tristezza, seccato dall’esperienza di una chemioterapia di mezza estate. Voi soffrite il caldo, noi pazienti oncologici di più: il calore citotossico ci arde sotto la pelle e ci brucia senza uscire di casa con il deumidificatore al massimo; per voi sani, che vi lamentate del caldo e partite per un mese di vacanze, non abbiamo alcuna pietà.
Uno forse dovrebbe tacere se non ha niente di buono da dire, di utile, o piacevole. Invece, io zitta non mi so stare.
Ada D’Adamo, nel prologo del suo premiato Come d’aria (Elliot 2023, p. 9), cita una frase di Rita Charon contenuta in Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti (Raffaello Cortina Editore 2019). La frase dice:
«È necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio».
Rita Charon
Ma la mia amica Mara, veterana di chemioterapie, oggi è quella che me lo ha detto meglio: «Ti stai rompendo i coglioni, amica mia».