“Ho sempre vissuto la vita col piede sull’acceleratore”. È così che Barbara inizia a raccontarmi di sé.
Ascolana, 60 anni, è madre di Valerio, che vive all’estero, e di Emanuele, che vive con lei. A loro ha dedicato ogni suo pensiero, da loro ha preso ogni motivazione.
La conosco una domenica pomeriggio grazie a Loriana, anche lei donna-albero per il Kintsugi Project. Sono amiche da molti anni e vengono insieme a trovarmi a casa.
Di Barbara mi si presentano per primi i piccoli occhi grigio-verdi che, da sotto un cappello nero, lampeggiano vivaci come pietruzze di labradorite. Indossa una giacca che vorrei rubarle subito: di panno verde, con certi ricami di cerchi gialli e fucsia che non riesco a smettere di guardare.
Quando Barbara inizia a raccontarmi la sua storia, abbiamo già familiarizzato davanti a una tisana di betulla, centella e vite rossa, di cui lei sente soprattutto la betulla. La betulla depura il fegato e aiuta a difendersi dai gonfiori della ritenzione idrica. Sia io che lei conosciamo bene gli effetti collaterali della chemioterapia: in ospedale, ci hanno gonfiato le vene di taxolo per dodici settimane.
“Il corpo è stato al centro della mia vita, avevo l’energia di un leone”, mi dice Barbara, ex giocatrice semiprofessionista di pallavolo. Ragazza riottosa e irrequieta, insofferente all’educazione familiare, a 22 anni se ne va di casa e sposa il suo allenatore. Lo chiameremo Mister: un po’ marito, un po’ coach, un po’ il padre di cui Barbara è sempre stata digiuna e affamata. La coppia si smonta presto, già alla nascita del primo figlio, ma solo verso la fine della seconda gravidanza, quattro anni dopo, Barbara dice: separiamoci. Mister dice no, cara, non se ne parla. Una divergenza di opinioni, questa, che andrà avanti per una quindicina d’anni, fra aule di tribunale, allenamenti e partite, trasferte e tornei, teatri di guerra a casa, i figli accanto e i parenti contro. “È stata quella, la mia distruzione”, mi dice. Lo penso anch’io: il cancro, in confronto all’amore, è un raffreddore. Comunque, intanto, Mister se ne va di casa e lei continua a giocare a pallavolo.
A 51 anni, Barbara si ritrova a uno screening di prevenzione e incontra una dottoressa senza sorriso che le dice con la voce metallica di un dispositivo elettronico: “C’è qualcosa che non va”. Barbara respira profondamente e la prende con la sportività dell’atleta che è: ogni tanto si perde qualche partita, succede. Bisogna pur buttare un po’ di sangue, – e una donna, in tutta la sua vita ne butta fuori assai, – ma Barbara ricorda soprattutto quello sgorgato dalla rottura di un capillare durante la biopsia. Tutte le donne ricordano una biopsia al seno, io ricordo la mia e il mio pianto di bambina.
Un’amica pediatra la aiuta a ottenere un incontro con il Dott. Veronesi. Partiamo per un viaggio, dice ai figli, facciamo un giro a Milano noi tre, noi tre moschettieri.
La magnificenza dello studio in cui il Dott. Veronesi la riceve è un’immagine che Barbara mi crea davanti agli occhi dipingendo in aria con le dita, come una pittrice impressionista con piccole pennellate rapide di colori saturi e luminosi: liquirizie sul tavolo, file di volumi su una libreria enorme, pareti affrescate; una segretaria bionda e cotonata, rossetto rosso, che scrive a macchina.
La prima cosa che il Dott. Veronesi le dice è: “Ma sei una bambina! Devi stare tranquilla che tutto si risolverà”. E le fa una carezza sul viso. Lei ne custodirà per sempre il ricordo del tocco gentile.
Il primo intervento, 18 maggio 2015, è una quadrantectomia al seno sinistro con linfoadenectomia. Barbara tira fuori il cellulare mentre me lo racconta e legge ad alta voce il referto dell’esame istologico: “Carcinoma intraduttale di alto grado con necrosi di tipo comedonico, numerosi focolai di carcinomi duttali infiltranti, HER2 positivo, …”. Non prendo nota di tutto, so come va a finire: dodici cicli di taxolo e un bel po’ di Herceptin le faranno perdere le forze, i globuli bianchi e i capelli.
Durante le terapie, però, Barbara mette in campo tutta la sua esperienza nel gioco di squadra: le amiche della pallavolo, sua sorella, i figli. Si muovono insieme, non si perdono mai d’occhio fra attacchi e difese. Lei, piccola e veloce palleggiatrice sul campo da gioco, diventa schiacciatrice centrale nella sua vita, attacca e fa muro, gigante potentissimo. Un’ex compagna di squadra si ammala di cancro anche lei qualche mese dopo, perché nella pallavolo si condivide tutto.
Alla notizia della malattia, Mister si dà pace e concede finalmente a Barbara la separazione consensuale.
Nel 2016, un anno dall’intervento, Barbara torna in sala operatoria per una mastectomia come quella che hanno fatto a me un paio di mesi fa, e nel 2018 per cambiare la protesi (quanto durerà la mia?).
Barbara ha vinto un campionato importante: è guarita.
Gioca ancora a pallavolo, solo per passione e con leggerezza. Gioca anche a padel, fa yoga, legge, va a teatro e passa molto tempo con i suoi figli.
Dopo decenni passati a governare il corpo, oggi è il corpo a comandare. Lei lo ascolta con attenzione e fa solo ciò che il corpo le suggerisce.
“La mia lettura – mi dice infine, – è che la malattia arriva forse quando è ora che nella tua vita cambi qualcosa. Quando mi sono ammalata, ho ricominciato a vivere”.
Le chiedo se ha mai avuto paura. Mi risponde: “Solo quella di non poter vivere abbastanza a lungo per vedere i miei figli adulti”.
Prima di oggi, Barbara non aveva mai raccontato la sua storia a una sconosciuta che prende appunti e fa domande fastidiose. La ringrazio per avermi permesso di raccogliere la sua testimonianza e per essersi affidata alle mie parole.
Per la parte corale del Kintsugi Project, quella di Barbara è la terza delle storie delle donne-albero.
Nella foto che mi ha mandato c’è lei in spiaggia in una giornata di sole, corpo vivo, forte e libero.
La canzone che ho scelto per Barbara è Narrow Daylight di Diana Krall. Un verso della canzone dice: “Are we stronger than we believe?”.
Kintsugi Project: come farne parte
In queste settimane sto raccogliendo le testimonianze di altre donne che hanno o hanno avuto un cancro al seno. Queste testimonianze faranno parte del Kintsugi Project in ogni luogo in cui il progetto troverà accoglienza.