Caterina compirà 60 anni quest’anno. Questo, lo scopro in occasione della nostra chiacchierata per il Kintsugi Project, durante la quale apprezzo presto la sua vitalità da trentenne, l’ottimismo di cui io mi vedo attualmente sguarnita, e la leggerezza di cui, per quanto mi riguarda, non ho memoria recente.
Nata in Canada da genitori di Ascoli Piceno, Caterina arriva in Italia nel 1971, all’età di 7 anni. La sua lingua materna è l’inglese, ma comprende l’italiano e il dialetto ascolano. Basta un’estate dai nonni per impossessarsi del secondo, che diventa il primo idioma.
«L’italiano non arriva dove arriva il dialetto», mi dice mentre io, tutta contenta, scarto il vassoio di pasticcini che mi ha portato in dono: provengono da Nonno Angelo, una delle migliori pasticcerie di Ascoli. Da Ascoli viene anche la bottiglia di anisetta Meletti con cui Caterina segna la sua prima volta a casa mia. Mi piace, mi è sempre piaciuta, questa usanza tutta italiana, un po’ di paese, che abbiamo di portare piccoli doni di cortesia per celebrare una prima volta. Nel dubbio che i doni non fossero abbastanza, comunque, Caterina mi ha regalato anche un diffusore per l’ambiente al profumo di zenzero e geranio. Grazie.
Zia innamorata, e a sua volta amatissima, di sette fervide gioventù – Niccolò, Leonardo, Emanuele, Alessandro, Bianca, Matteo e Giulia, – con loro organizza le serate Star Wars accompagnate da würstel e patatine, la tombolata della Befana e i pranzi a base di carbonara cucinata dai nipoti più grandi. Anch’io non vedo l’ora di fare queste cose con Gioele e Nicolò, ma mancano ancora tantissimi anni e ho perso l’abitudine di guardare troppo in avanti.
Ho conosciuto Caterina nel tango, come già nel caso di Loriana. Il tango fa incontrare molte persone in giro per l’Italia e per il mondo; alcuni incontri, a volte, diventano frequentazioni, amicizie, amori, adulteri, delusioni, svolte. Cambiamenti.
Nell’agosto del 2017, proprio dopo un periodo in cui la sua buona abitudine alla prevenzione si era impigrita, Caterina sente un nodulo al seno destro. Ecografia e mammografia fanno dire al dottore: «E che ti devo dire, Caterì: questo è un tumore».
Caterina, non è che si perda d’animo per un tumore, figuriamoci: sogna di acquistare una casa al mare, a San Benedetto del Tronto, e il caso la porterà ad acquistarne una nello stesso periodo delle cure.
La quadrantectomia di dicembre svela un carcinoma duttale infilitrante G2 e la linfoadenectomia due linfonodi in metastasi.
Il 6 febbraio 2018 le impiantano il PICC, il catetere venoso centrale che anch’io ho portato al braccio per qualche mese. Il giorno dopo, inizia la chemioterapia: prima, quattro vigorosi cicli di EC (Epirubicina – Ciclofosfamide), la famigerata “Rossa” che spezza l’anima a chiunque, poi quattro cicli di Docetaxel e Trastuzumab. Il programma completo prevede anche iniezioni per un anno, la terapia ormonale a base di Tamoxifene, e infine trenta cicli di radioterapia.
Caterina prova a non perdere i capelli. Per questo sceglie il DigniCap, il casco refrigerante che raffredda la testa durante la terapia, congelando i bulbi e salvando quanti più capelli possibili. Abbiamo percorso due strade diverse: io il casco non l’ho voluto, ho preferito perdere i capelli e avere un’ottima scusa per comprarmi dei turbanti bellissimi. Caterina invece è contenta dei capelli che grazie al casco le rimangono in testa, perché all’improvviso, da lisci lisci che erano, diventano ricci. Sempre detto, fin dall’inizio della mia personale esperienza, che la chemio fa i suoi miracoli.
I globuli bianchi però crollano. Via alle iniezioni per stimolarne la crescita. Per me sono state iniezioni di Pelgraz. Me le ricordo, le ho ancora tutte nelle ossa sbriciolate.
Gli effetti collaterali che toccano a Caterina le rovinano la bocca e le fanno guadagnare il titolo di “zolfatara ambulante”: bruciori, reflussi e saporacci – ogni paziente oncologico in chemioterapia scopre di avere attitudine per questo o quell’altro danno; io ho mostrato prodigioso talento per la mucosite alla gola.
Caterina smette di bere acqua liscia, che le diviene intollerabile, e inizia a bere solo acqua gassata. Oggi riesce a mandarla giù anche liscia ma, se può scegliere, la preferisce ancora gassata. Sono i cambiamenti inspiegabili della nostra personale biologia di fronte all’assedio citotossico: anch’io ne ho subiti alcuni dopo la chemioterapia, per esempio non sopporto più l’aceto, che prima mi piaceva tanto nell’insalata e m’impreziosiva piatti particolari.
E poi, la fatica, sì, la fatica. Salire le scale diventa umiliante e un paio di lacrime le fa versare a tutte, anche alle creature forti e irriducibili come Caterina.
Nella primavera del 2023, durante la terapia di mantenimento, Caterina avvista una macchia rossastra sulla pelle, vicino al capezzolo del seno appena curato. Una puntura d’insetto? Una reazione allergica? Una settimana di pomata non serve a niente, la macchia s’allarga, la pelle si fa buccia d’arancia. Ma la vita mica si ferma. A fine luglio, Caterina parte per un viaggio a Nizza con le sue amiche. È da Nizza che legge il referto della biopsia fatta a giugno e apprende di avere un angiosarcoma, una forma di tumore assai rara probabilmente causata dall’esposizione a radiazioni ionizzanti: la radioterapia fatta per curare un cancro ne ha favorito un altro. «Ma che culo», pensa lei, e in parte lo pensa sul serio, perché ehi, di angiosarcoma si muore e, se non si manifesta sulla pelle, è difficile accorgersene.
La mastectomia di agosto le lascia una cicatrice tutto sommato accettabile. La rimozione dell’angiosarcoma, che non prevede alcuna salvezza per il seno, richiede di lasciare un margine di 3 centimetri di pelle pulita dalla lesione al taglio. Il referto dell’esame istologico, però, dice che questi margini non ci sono. E che si fa?
Con un nuovo intervento a novembre, il seno di Caterina diventa un cantiere aperto di lavori in corso. Lei se ne torna a casa con un grosso buco rosso al posto della mammella e impara a medicarselo da sola. «Caterina, ma non ti fa male?», le chiede la madre. No, non fa male: perdiamo la sensibilità, noi operate al seno. Con o senza mammella ricostruita, non sentiamo più niente, né dolore né piacere (lo impari chi deve), nemmeno il solletico sotto l’ascella.
I lavori nel cantiere ricominciano: stavolta raschiatura e pulizia, poi giusto un passaggio in rianimazione per farle riprendere conoscenza, ché anche a Caterina capita di svenire. Esce dall’ospedale il 13 novembre, giorno del suo compleanno, per rientrarci il mese dopo, il 20 dicembre, a «metterci una pezza» con una porzione di pelle prelevata da una coscia. Non siamo che volumi di carne su un tagliere alla luce di una lampada bianca.
Seduta accanto a me, mentre sbocconcelliamo i pasticcini di Nonno Angelo, mi mostra una foto di com’era il cantiere prima della chiusura. Quello che vedo è un cratere rosso e bianco. Prendo appunti che poi non sarò in grado di sviluppare. Il mio taccuino verdementa ne è pieno, trabocca di slanci che si schiantano sulla carta.
Caterina non è ancora guarita.
Ma vive la vita come se non si fosse mai ammalata. «C’è di peggio, – mi dice, – ci sono mali da cui non si guarisce». Ne sono convinta anch’io.
Caterina ha scelto di partecipare al Kintsugi Project perché, mi dice, non c’è nulla di sconveniente nel farlo: ci sono donne che si vergognano di parlare pubblicamente di queste cose. Noi no. L’educazione alla prevenzione si fa anche grazie alle donne che no, non si vergognano di raccontare, mostrare, dire le cose come stanno.
Io poi, se non racconto le cose, mi ammalo sul serio. Altro che tumore.
Per la parte corale del Kintsugi Project, quella di Caterina è la quinta delle storie delle donne-albero.
Nella foto che mi ha mandato è con i suoi sette nipoti.
La canzone di Caterina
Caterina ha tre canzoni preferite: The Neverending Story (la colonna sonora del film La storia infinita), Love is in the air di John Paul Young e Can’t take my eyes off you di Gloria Gaynor.
Le ho chiesto di sceglierne una. Va via cantando e ballando.
[Nota: Caterina è venuta da me lo scorso 14 dicembre. Sono riuscita a scrivere la sua storia solo in questi giorni di gennaio, per difetto d’ingegno e abbondanza d’indolenza. Non posso nemmeno dire che è colpa della radioterapia post-operatoria che mi ha tenuto impegnata perché, di quella, quasi non me ne sono accorta. Caterina mi ha scritto proprio oggi: “Ho chiesto per la ricostruzione: altre due puntate per il Kintsugi ti ci escono”]
Kintsugi Project: come farne parte
In queste settimane sto raccogliendo le testimonianze di altre donne che hanno o hanno avuto un cancro al seno. Queste testimonianze faranno parte del Kintsugi Project in ogni luogo in cui il progetto troverà accoglienza.