Ho impostato la sveglia sul cellulare per ricordarmi di prendere le mie nuove pillole ogni mattina alle 8:30, dopo colazione, e ogni sera alle 20:30, dopo cena.
Capecitabina
3 compresse da 500 mg al mattino e 3 compresse da 500 mg alla sera, tutti i giorni per due settimane, poi una settimana di pausa. Questo schema è un ciclo. Da ripetere per 6 cicli. Sono, in tutto, quattro mesi e mezzo di chemioterapia, scanditi e puntellati dal consueto programma di visite di controllo ed emocromi di routine. Sono ancora regolari, quindi, i miei passaggi al reparto di Oncologia a studiare lo sguardo delle infermiere gentili, i dipinti appesi alle pareti, il rosso delle poltrone in sala d’attesa, i libri nello scaffale della piccola libreria allestita, credo, dalle associazioni di volontari. Regolari, le mie colazioni voraci e rabbiose al bar dell’ospedale subito dopo i prelievi di sangue: almeno una conchiglia farcita con crema di latte, ancora calda.
Questo sabato avrò completato la prima serie di capecitabina. Si va in pausa.
Se non fosse per i primi segni di insofferenza del corpo, non avrei l’impressione di aver iniziato una nuova chemio: quella seria, per me, va in vena. La facevo in ospedale, di solito il mercoledì, e l’infusione durava qualche ora. Mi ha tenuto impegnata da aprile a settembre: 4 cicli di epirubicina e ciclofosfamide, seguiti da 12 cicli di taxolo.
Sono stati mesi straordinari quelli, cioè fuori da ogni ordinarietà immaginabile, lontani da qualunque consuetudine nota; uno spartiacque nella mia storia, una cesura tra un prima e un dopo. Sono questi i servizi fotografici “Prima e dopo” che vorrei vedere.
Prima, per esempio, non conoscevo una fatica di quella intensità, dopo sì. Prima, non soffrivo di mucosite alla gola, dopo sì. Prima, non avevo mai comprato turbanti e fasce modellabili, dopo me ne sono ritrovata un cassetto pieno; prima, avevo i miei bei capelli lunghi e lisci, poi nessuno, e dopo ho avuto i capelli corti, brutti e mossi – adesso ricominciano a indebolirsi, potrebbero cadere di nuovo, non è possibile saperlo con certezza. Prima, il mio seno destro non aveva una cicatrice, dopo sì. Prima, sentivo il tocco di una mano che vi si posava sopra. Dopo no, niente.
Dovrei dirlo alla mia amica fotografa, Barbara di Cretico, che mi ha fotografato prima della mastectomia, per il Kintsugi Project dell’Ottobre rosa: Barbara, adesso facciamo il dopo.
Prima, la mia vita scorreva più o meno quieta, a tratti tediosa; dopo, no. Dopo, è stata terra che si apre sotto i piedi. Uno pensa che sia per l’esperienza della malattia, invece no, non solo. L’ho già detto: non c’è mica solo la malattia, nella vita di una persona malata. La vita può apparecchiare per noi strazi di diversa entità e natura, da sopportare tutti insieme.
Queste pasticchette qui, comunque, grandi come caramelle per la gola, da ingoiare facili facili a casa, mi mettono quasi in imbarazzo davanti ad altri pazienti oncologici in terapia. Penso alla cura sperimentale che mi era stata proposta e che ho rifiutato. Adesso, se allora avessi firmato per aderire al programma di ricerca, sarei una paziente del Tropion 03 Breast. Farei la spola tra qui e Milano, ancora. Soffrirei effetti collaterali più impegnativi, alcuni comuni, altri meno. E poi: sarei salva? Non è detto. Non è detto mai comunque, per nessuno.
Insomma: mi è andata bene. Magari, con questa terapia standard, domiciliare, comoda comoda, vivrò di meno ma meglio. Non ho tutto questo desiderio di longevità, mi sta più a cuore la qualità del tempo che rimane.
La sveglia, dicevo.
Per ricordarmi di mandare giù le mie pasticchette in orario, avevo inizialmente impostato la suoneria del cellulare su quella vecchia canzone di Mary Poppins. Banale come scelta, sì.
Solo che, probabilmente per questioni di diritti d’autore, quello che ho trovato disponibile non era il brano originale del film, ma una versioncina inedita registrata, m’immagino, da una giovane aspirante cantante poco talentuosa. Un po’ come succede con le musiche celebri negli spot pubblicitari realizzati con budget esigui. L’ora della capecitabina mi diventava, così, ancora più imbarazzante. Sono passata quindi a uno smorto bip-bip.
In queste settimane di gennaio sto lavorando molto. Per due nobili motivi: ho bisogno di rimuginare di meno e guadagnare di più.
Almanaccare sul futuro, d’altra parte, è ridicolo; almanaccare sul presente è sfiancante. Il passato è patetico per natura, lasciamolo dove sta. Così, trascorro le giornate alla scrivania a lavorare al computer, quindi a spremere gocce di creatività da quella materia esausta e sonnolenta che è la mia mente dopo il 2023 (prima, dopo). È tutto più igienico.
Gli effetti della Chemo Brain Fog, comunque, hanno ridotto la qualità dei processi. Ed è per questo che temo la capecitabina a ogni deglutizione di compressa con un sorso d’acqua. Sono sei paurose deglutizioni al giorno, se non si contano quelle per mandare giù il cibo, il vino, gli antidepressivi e il veleno dell’amarezza.
La capecitabina non va sottovalutata: la mia ora delle pasticchette ovali color salmone è un momento delicatissimo. Il bip bip della sveglia annuncia e mi ricorda ogni mattina e ogni sera che sì, sono «tecnicamente guarita» e tuttavia sono ancora una paziente oncologica.
Ma c’è del buono in ogni cosa: entro gratis ai musei.
La legge 104 mi ha fruttato, domenica scorsa, due ingressi gratuiti alla mostra di Helmut Newton a Roma, uno per me disabile e uno per il mio accompagnatore, per un totale di 26 euro risparmiati. Ditelo, voi abili, che un po’ vi urta.
[…] ho già scritto in un altro post, nella condizione di invalidità ci sono vantaggi anche molto più palpabili della […]
[…] come stai tu piuttosto?». Mi vedeva arrivare col fiato corto, sfiancata dalle scale e dalla capecitabina. Sono al quinto ciclo, non manca molto alla fine della […]