Giorno 109
Seconda serie di chemio. Ieri, mercoledì 2 agosto, quinto ciclo di taxolo.
Tempi duri per il mio animo, malandato quasi più del corpo.
Gli amuleti per questa occasione sono due persone: il mio migliore amico Fabio e sua moglie Cinzia. Poco più di un mese fa si sono sposati e io ero lì, nel mio abito color ottanio, a metterci la firma e a sperare di arrivare in salute fino in fondo alla serata.
Appena tornati dal loro viaggio di nozze, ancora storditi dal jet lag, e giusto di passaggio da queste parti prima di rimettersi in viaggio per proseguire le loro santissime ferie, non hanno trovato altro di meglio da fare che accompagnarmi in ospedale a fare la chemio. Perché gli amici fanno questo, ogni volta che possono: ci sono. E, se ti ammali di cancro, “il cancro è una faccenda di tutto il gruppo”: me lo ha detto una volta Fabio, che conosco dagli anni ’80.
È strano parlare col mio migliore amico di una vita in una stanza di ospedale mentre faccio la chemio. La chemio è una cosa che perlopiù si vuole fare da soli, al massimo in presenza di parenti che vegliano sul tuo sonno o passano a portare viveri per gli attacchi di fame sferrati dal cortisone.
Il mio amico, custode e testimone della mia vita, controlla che tutto sia a posto, che i farmaci nella flebo scorrano bene, che la mia scheda delle somministrazioni sia corretta (soluzione fisiologica 10 minuti – altra soluzione fisiologica 10 minuti – Ondansetron 15 min – Trimeton 15 minuti – Paclitaxel 60 minuti – lavaggio 10 min). Mi studia in viso, alla ricerca di segnali di malessere, quelli che si manifestano presto durante il taxolo.
Mi racconta le cose. Io lo ascolto ma non riesco a seguire tutto e dimentico in fretta i concetti.
“Chemotherapy Brain Fog”, mi ha spiegato la mia oncologa.
È un effetto collaterale che provoca vuoti di memoria, problemi di concentrazione e una complessiva, frustrante sensazione di annebbiamento mentale. Dev’essere per questo che faccio fatica a lavorare al computer, a finire di leggere un libro, guardare un film dall’inizio alla fine, sostenere una conversazione, trovare parole più fini, andare oltre il concreto quotidiano della lingua.
“Questi sintomi scompaiano al termine della terapia, non preoccuparti”, mi ha detto la mia oncologa, ma io ho letto che in alcune persone scompaiono dopo anni. Sarò una persona annebbiata a lungo?
La mia amica Enrica, l’altra custode, membro della mia gente per la quale il mio cancro “è una faccenda di tutto il gruppo”, mi dice sempre: “Non cercare scuse nella chemio, non mi freghi: tu stai annebbiata da che ti conosco”. È vero. Però leggevo una quarantina di libri all’anno, guardavo tanti film, il mio cervello trovava tante parole fra migliaia di scaffali mentali, ero veloce nell’afferrare le cose. Adesso sono lenta, intorpidita, poco centrata sulle parole: testi, discorsi, dialoghi, congetture. Riesco invece ad ascoltare musica e podcast, a dipingere con gli acquerelli o colorare con i pastelli (io che non avevo mai dipinto né colorato niente), a fare scrapbooking. Cosa non fa la mente, per rimanere viva.
Si danno il cambio, Fabio e Cinzia, perché insieme non li fanno entrare. Mi addormento sotto una coperta di lana, ho i brividi. Cinzia me la rimbocca mentre tengo gli occhi chiusi, sorrido di gratitudine per la sua cura delicata e discreta. Per come ha accolto nella sua vita l’amicizia profonda fra suo marito e me, fra suo marito ed Enrica, nella cornice del nostro Abruzzo caro.
Oggi c’è una paziente nuova di fianco a me. È alla sua prima chemio, ha lo sguardo tribolato e non parla molto. Lei ha scelto il casco refrigerante: il trattamento per evitare la caduta dei capelli. È un casco ghiacciato, collegato a una macchina attraverso un tubo fissato alla base della nuca, da tenere in testa per tutta la durata della chemio. È possibile che causi forti emicranie e cervicali, ma soprattutto è possibile che i capelli cadano lo stesso. Non lo avevo ancora mai visto dal vivo e, non so perché, penso al film “Matrix”.
La signora, poi, ha il pallore e gli occhi acquosi di Trinity, ma i capelli lunghi fino alle spalle. L’infermiera glieli bagna con l’acqua e poi glieli intruglia di balsamo. “Durante il trattamento, i capelli geleranno. – le spiega, – Sentirai freddo e bruciore alla testa, non toglierti il casco e soprattutto non toccarti i capelli! Saranno congelati e possono spezzarsi”. Trinity annuisce e dice solo “Ok”. Guarda dritto davanti a sé e non dice altro.
Io sollevo gli occhi verso la flebo dei suoi farmaci: c’è “la rossa”, il sicario delle mie prime quattro chemio.
Trinity scoprirà presto che il rischio di perdere i capelli malgrado il casco non sarà fra i suoi primi pensieri dei prossimi giorni. Forse. Per molte donne, perdere i capelli è il trauma che sancisce il vero inizio della malattia. A me stanno ricrescendo, radi e lenti; il taxolo è più indulgente con i capelli, se somministrato dopo “la rossa”. Presto inizierò a riporre qualche turbante e ad andarmene in giro con la mia bella testa sorprendentemente rotonda e una spazzola sottile di capelli.
La mia pompa infusionale si blocca spesso e suona per avvertire della presenza di bolle d’aria. È perché muovo troppo il braccio. A ogni terapia, quando non dormo, sono sempre più insofferente, smaniosa, indocile. Non leggo, non scrivo, non faccio altro che mangiare e stare truce e ammusonita.
Oggi però sorrido, gesticolo, chiacchiero, perché ho accompagnatori rari e speciali.
Il giorno dopo la chemio sono partita per Mondo Piccolo. Mi trovo ora nel mio posto delle fragole.
C’è la campagna, c’è l’orto con i pomodori, ci sono i campi a perdita d’occhio, i gatti della Ros, le cenette del Concarone, la mia solitudine cercata a lungo che mi mancava tanto, libri da leggere e taccuini da scrivere fin dove l’annebbiamento mentale mi fa arrivare, gli acquerelli per dipingere i colori che vedo. Un senso di quieto abbandono al fluire delle cose.
Il tempo, per cinque giorni, è sospeso.
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